Dalla teoria alla pratica: la finanza comportamentale applicata

Mi occupo di finanza comportamentale da quasi 20 anni, precisamente dal 2002, anno del Nobel per l’Economia allo psicologo Daniel Kahneman, considerato il padre, o quanto meno uno dei padri, della finanza (e più in generale) dell’economia comportamentale. L’attribuzione del Nobel era relativa a studi degli anni Settanta e Ottanta – la cosiddetta “Finanza Comportamentale 1.0” – e spesso ancora oggi la formazione su temi di finanza comportamentale si basano su quei concetti di base.
 
Negli ultimi anni, anzi decenni, si è assistito a un’evoluzione straordinaria degli studi comportamentali, volta a trovare soluzioni a quegli “errori” (bias) comportamentali. Già a metà-fine anni Novanta si assisteva alla nascita della cosiddetta “Finanza Comportamentale 2.0” o “in azione”, che aveva l’obiettivo di passare dalla teoria alla pratica, o meglio di fornire soluzioni applicative ai problemi comportamentali. Questa seconda generazione di studi comportamentali è culminata in quella che oggi viene chiamata “Architettura delle Scelte” e nelle cosiddette “Spinte gentili” proposti da Richard H. Thaler (Nobel 2017) e Cass R. Sunstein. La prima edizione del loro libro Nudge è del 2008 e da pochi mesi è uscita l’edizione definitiva (Final edition) aggiornata e integrata. L’idea è semplice: se non riesci a cambiare i comportamenti delle persone, allora modifica l’ambiente decisionale in cui le scelte vengono prese.  I nudge (“spinte gentili”) si sono dimostrati strumenti efficaci e potenti per indirizzare le scelte. L’esempio più noto riguarda le scelte previdenziali. Problema: i lavoratori non risparmiano abbastanza per la pensione. Soluzione: iscrizione automatica ai fondi pensione con la possibilità di “uscire”, cioè di disiscriversi. L’hanno chiamato “Paternalismo libertario”, cioè ti indirizzo, non ti lego, sei sempre libero di scegliere diversamente, ma sapendo che le persone tendono a procrastinare anche scelte importanti, alla fine funziona, eccome se funziona!  
Il futuro? Analizzare i dati dei clienti con la doppia lente tradizionale e comportamentale, per fornire davvero un servizio personalizzato ai clienti.
Consente cioè, finalmente, di passare davvero dalla teoria alla pratica, mostrando davvero come è possibile applicare la finanza comportamentale nella realtà e misurandone gli effetti.
L’approccio si basa sulla clusterizzazione dei clienti in quattro macro-tipi. Identificarli permette di capire quale sia l’approccio comunicativo e relazione più efficace ed efficiente di ogni tipologia di cliente – migliorando realmente e sensibilmente la relazione tra cliente e consulente – quali prodotti siano più adatti, ma anche come proporre una stessa soluzione di investimenti a clienti diversi. 
Più recentemente, finalmente, si è andati nella direzione di considerare le differenze tra individui, non solo considerando gli aspetti demografici o socioeconomici come le differenze di età, genere, reddito, patrimonio, livello educativo, eccetera. Si sono incorporate le teorie sulle personalità in finanza. Personalmente ho scoperto questo nuovo approccio, che ho ribattezzato “Finanza Comportamentale 3.0” o “personalizzata” dopo aver letto il libro di Michael M. Pompian (consulente finanziario statunitense, non accademico) intitolato “Behavioral Finance and Investor Types” (“Finanza comportamentale e tipi di investitori”) del 2012. Entrare nella dimensione della finanza comportamentale personalizzata permette un approccio pragmatico e applicativo, per questo ho cambiato completamente l’impostazione dei miei corsi di formazione e della mia attività di consulenza comportamentale con quella che chiamo “Finanza comportamentale applicata”, per discostarmi da un’impostazione meramente teorica che, per quanto interessante, non offre reali strumenti applicativi per risolvere i problemi comportamentali. 
Ma c’è molto di più sotto la superficie rispetto a quello che vediamo, la punta dell’iceberg.
Tutti questi approcci sono però generalisti, non considerano cioè le differenze tra individui. Per esempio, si afferma che gli uomini sono in media più overconfident (troppo sicuri di sé) delle donne. In media, appunto. Se usciamo dalle media, ci sono ovviamente donne molto overconfident e uomini addirittura underconfident (troppo poco sicuri di sé). 
 
Enrico Maria Cervellati – Professore Associato di Finanza Aziendale presso Link Campus University Roma